#8 marzo giornata internazionale della donna

GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA – 8 MARZO 2023 dedicata alle Donne iraniane

Video prodotto dalle studentesse e dagli studenti dell’Einaudi

LA VITA UMANA VALE UNA CIOCCA DI CAPELLI?

O MEGLIO, LA LIBERTA’ UMANA VALE UNA CIOCCA DI CAPELLI?

In Iran e nei paesi di religione islamica tagliarsi i capelli è segno di lutto. Per questo, in memoria di Mahasa Amini, le donne iraniane hanno iniziato a protestare tagliandosi i capelli e bruciano gli hijab nelle strade, contro la rigida applicazione del governo della legge sul velo. Proprio quel velo che, messo non correttamente, ha provocato la morte della giovane Mahsa Amini, una ragazza curda di 22 anni che ha perso la vita perché una ciocca dei suoi capelli fuoriusciva dall’hijab: arrestata dalla polizia morale, è morta dopo tre giorni per le percosse. 

Il taglio delle ciocche simboleggia la rabbia ed è seguito spesso dalle parole Zhen, Zhian, Azadi, Donna, vita, libertà, slogan delle proteste che risuona da mesi nelle piazze iraniane e in tutto il mondo.

Ma perché proprio i capelli?

I capelli, simbolo di forza e sensualità, nei secoli e nella cultura e tradizione dei popoli mediterranei sono stati spesso velati. E quella del velo è una storia molto articolata che oggi riguarda soprattutto i popoli di origine islamica ma anche il cattolicesimo se pensiamo alle donne che si sono votate a Dio.

In alcuni casi, c’è stata un’alternanza negli usi del velo.  È proprio il caso dell’Iran, dove, negli anni Trenta del Novecento, alle donne veniva tolto il velo con la forza per omologare il paese all’ideale occidentale moderno. Poi, in seguito alla rivoluzione sciita del 1978-79, si è fatta strada nuovamente l’dea di un islam utopistico per contrastare il Neoliberalismo americano. Nel 1982, in Iran viene reintrodotto l’obbligo di velarsi il capo – sia per le donne residenti che per le turiste di passaggio – obbligo tuttora in vigore e che le donne iraniane stanno, con tutte le loro forze, combattendo a rischio della vita.

NON SONO SOLO CAPELLI, È (ED È SEMPRE STATA) POLITICA: DAI BEATLES ALL’IRAN

I capelli non sono solo “capelli”: sono un resoconto dell’identità di qualcuno e simbolo di scelte precise ma, non di meno, sono espressione naturale di culture e della genetica. Oggi che le donne del mondo li tagliano in segno di protesta, vale  la pena di fare una riflessione più ampia e approfondita.

Non si tratta solo di capelli

Nel corso della storia e nelle diverse culture, i capelli e le acconciature hanno sempre avuto un significato politico che va ben oltre l’estetica. Gli stili di vita legati all’ambiente militare, di corte o a quello religioso hanno, o hanno avuto, per esempio delle regole esplicite sulla lunghezza dei capelli o sul dovere di tenerli in qualche modo coperti o acconciati e, in molti casi, circostanze sociali o politiche hanno spinto la moda a scegliere di estendere tali regole anche chi non faceva, o non fa, direttamente parte di quei mondi.
A metà del XX secolo, per esempio, le culture occidentali hanno iniziato a vedere negativamente i capelli lunghi nei maschi (fino a prima del Novecento era consuetudine che i Re li portassero lunghi) o ancora, le culture dell’Asia orientale associano i capelli sciolti delle donne a un’indole irresponsabile.
Negli anni ’70 del secolo scorso i capelli lunghi per le comunità hippie avevano  il valore che ha una bandiera di rivendicazione, erano il simbolo non solo di una controcultura ma anche di nuove prospettive, del rifiuto delle discriminazioni di genere e dei ruoli di genere restrittivi; i capelli lunghi su ragazzi e uomini erano ancora un tabù in molte parti degli Stati Uniti e dell’Europa: già il taglio a scodella tipico dei Beatles era considerato sgradevole e antisociale, se non addirittura sovversivo.

Ma perché? I capelli lunghi, a scodella o con il ciuffo alla Elvis, sono l’opposto del taglio militare quindi portarli era una prova visibile di disapprovazione della guerra in Vietnam quindi era equivalente a sbandierare un atteggiamento anti governativo. Oggi, se un maschio di qualunque età porta i capelli lunghi non interessa (quasi) a nessuno, tuttavia quello dei capelli resta un tema per metà della popolazione mondiale: le donne. E lo è da almeno duemila anni.
La Bibbia
per esempio è ricca di insegnamenti, obblighi e norme legate alle acconciature, come per esempio quella di indossare un copricapo. Le regole sono sia esplicite che implicite: il rituale sotah (che significa “colui che si scopre smarrisce”), in cui una donna viene accusata di adulterio implica che normalmente la testa di una donna sia coperta. La Torah invece comanda alle donne di uscire in pubblico con il capo coperto, nell’Antico Testamento Susanna indossa un copricapo e gli uomini “malvagi” le chiedevano di toglierlo “per desiderarla”, nella Genesi è Rebecca, mentre viaggiava per incontrare Isacco, “non ostentò la sua bellezza fisica” ma “si velò, accrescendo il suo fascino attraverso un’esibizione esteriore di modestia”.
La modestia delle donne è sempre stata esaltata come qualità fondamentale e ovviamente per “modestia” si intende la cancellazione della propria identità.
Nel Cantico dei Cantici si legge quanto fosse presente una cultura che faceva riferimento alla “natura erotica dei capelli” e, per fare un ulteriore esempio, la legge ebraica al tempo di Gesù stabiliva che le donne sposate che si scoprivano i capelli in pubblico dessero prova della loro infedeltà.

A partire dagli anni Sessanta vediamo “i capelloni” ma non solo, è l’ondata femminista che dà vita alla National Organization for Women e alla pubblicazione di una “Risoluzione sui copricapi” (1968) che riconosce all’obbligo morale del copricapo il valore di norma e lo contrasta con una campagna di “svelamento” in cui molti copricapi sono stati ammucchiati e poi bruciati pubblicamente in segno di protesta.
Nel 2022, le proteste di svelamento e il gesto di incendiare i veli sono ripresi delle donne in Iran che si schierano contro l’obbligo del velo (e in generale contro un regime oppressivo).
Ma queste sono contemporanee all’uscita di “The Significance of the Christian Woman’s Veiling” uno scritto del 2022 di Ruth Merle che esalta, legittima e invita all’uso continuo del copricapo (se si è delle vere donne cristiane).
Si legge: “Una sorella dovrebbe indossare il velo principalmente perché è una donna, non perché periodicamente prega”. Secondo Merle, l’urgenza di tornare a indossare il velo per le donne cattoliche nascerebbe dal bisogno, del mondo “aggressivamente laico”, di vedere “testimonianze di uomini e donne che si attengono a questo principio: la società oggi in gran parte ignora la disposizione dell’autorità di Dio”.

Nelle società patriarcali basate sul binarismo di genere, maschi e femmine devono essere distinti. Il ruolo della donna è prevalentemente domestico e subordinato a quello degli uomini. Le diverse acconciature, proprio come i codici di abbigliamento, sono sempre stati lì per rafforzare questo concetto. Prima del matrimonio una folta chioma poteva anzi doveva incorniciare il viso anche perché i capelli lunghi erano considerati un segno di buona salute, il che avrebbe aumentato le possibilità della donna di dare alla luce un erede sano (possibilmente maschio). Le donne sposate, invece, sapevano che era un peccato essere attraenti quindi cuffie, crocchie e acconciature poco “incornicianti”.
È interessante osservare come il concetto di “modestia” femminile sia ricorrente secolo dopo secolo e sempre fortemente legato all’aspetto delle donne, al controllo del loro corpo e al modo di pensare ai loro capelli.
Anche se non dobbiamo più coprirci i capelli viviamo comunque immerse in stereotipi che sono duri a morire. Per fare un solo esempio, sappiamo che, superata una certa età le donne “dovrebbero” tenere i capelli più corti. Ma cosa c’entra l’età con l’acconciatura? Si tratta dell’immagine che la società vuole che le donne abbiano ed è appunto solo un esempio: una donna anziana “deve” essere più ordinata, innocua e desessualizzata. E infatti vediamo anche come non si parla di sessualità rispetto alle donne che hanno superato una certa età. Non sono “solo” capelli: è società, è politica.

Capelli e identità

L’intreccio tra identità (condizione sociale, fede, moralità, posizione politica) e capelli è profondo, primitivo e costante, anche senza bisogno di attraversare principi legati a tradizioni religiose nei tempi più recenti (duemila anni sono tempi recenti se pensiamo alla civiltà nel suo complesso). Visto il significato che culturalmente viene dato ai capelli delle donne, privarle di essi può essere ed è stata una punizione ed è una pratica che si ritrova sia nella cultura orientale che in quella occidentale.
Le donne che, alla fine della Seconda guerra mondiale, furono accusate di “collaborazione orizzontale” cioè di aver intrattenuto relazioni romantiche o sessuali con i membri delle forze dell’occupazione pubblica tedesca dopo la caduta della Francia nel 1940, furono sottoposte all’umiliazione di una rasatura. E si dice che almeno 20mila donne siano state rasate a forza.
Nel periodo vittoriano, i capelli di una donna erano visti come un mezzo per esprimere i propri desideri e le proprie emozioni: le donne vittoriane infatti dovevano tenere i capelli legati per scioglierli solo una volta giunte in camera da letto in quanto, la credenza dominante era che il potere e la bellezza dei capelli dovesse essere riservata solo al piacere del marito.
Ne “Lo stupro della serratura”, scritto in età augustea, Alexander Pope descrive le ciocche di Belinda come catene per la schiavitù ma anche come  insidie ​​​​e trappole per gli uomini.
Negli anni Cinquanta  fu un taglio corto, appena sotto le orecchie, noto come “pettinatura della liberazione”, a divenire molto popolare: indicava la presa di controllo della propria vita da parte delle donne partendo proprio dall’aspetto esteriore.

Anche in tempi più moderni, la scelta dell’acconciatura può far capire molte cose.
Non è sbagliato allora affermare che il modo in cui una donna decide di portare i capelli è politico: è indicativo della sua identità e delle sue intenzioni, sopratutto se rifiuta le regole non scritte che disciplinano il suo aspetto o vorrebbero disciplinarlo.

Tagliarli (anche su Instagram) in segno di protesta

Da mesi l’Iran è teatro di proteste civili e violente repressioni;  dalla morte agghiacciante di Mahsa Amini  dal Medio Oriente all’Europa, agli Stati Uniti, le manifestanti hanno marciato per protestare contro la morte di Amini ma sopratutto contro le leggi sull’hijab e per mostrare solidarietà alla popolazione femminile e maschile dell’Iran. Le forze dell’ordine iraniane reprimono  le folle senza pietà tra migliaia di arresti e molte morti, anche soprattutto di giovani che sono lo zoccolo duro delle proteste.
Le donne in Iran (e in tutto il mondo) hanno quindi bruciato i veli al grido “Donna, vita, libertà” e “No al velo, no al turbante, sì alla libertà e all’uguaglianza”. E alcune hanno anche tagliato o rasato i loro capelli. Ma perché? Per molte donne iraniane i capelli sono un simbolo di bellezza e quindi secondo la legge islamica devono essere coperti dall’hijab. Nella storia dell’Iran, quando le donne non avevano abbastanza potere per alzarsi, si sono sempre tagliate i capelli: è un simbolo di protesta e di lutto che risale all’epopea persiana “Shahnameh” di Ferdowsi, uno dei poemi epici più lunghi del mondo scritto tra il 977 e il 1010 circa.
È l’epopea dell’Iran, dell’Afghanistan e del Tagikistan e racconta la creazione del mondo e la conquista musulmana avvenuta nel VII secolo. In tutto lo Shahnameh, i capelli sono un simbolo ricorrente e spesso vengono strappati o tagliati per indicare un lutto o una perdita.
Attualmente molte donne, protagoniste della politica o dello show business di tutto il mondo, si riprendono in video  mentre si tagliano i capelli.
Cosa fa la “polizia morale”? La “Gasht-e-Ershad”, che si traduce come “pattuglie di guida” è ampiamente conosciuta come “polizia della moralità” ed è un’unità delle forze di polizia iraniane incaricata di far rispettare le leggi sul codice di abbigliamento islamico in pubblico. Secondo il regolamento, tutte le donne al di sopra dell’età della pubertà devono indossare un copricapo e abiti larghi anche se l’età esatta non è definita in modo chiaro.
Le bambine? A scuola devono indossare l’hijab a partire dai 7 anni, ma ciò non significa che debbano necessariamente indossarlo anche in altri luoghi pubblici. Gran parte delle norme sociali iraniane si basano sull’interpretazione della Sharia islamica da parte dello Stato, che impone a uomini e donne di vestire in modo “modesto”.
Tuttavia, all’atto pratico, la “polizia morale” prende di mira soprattutto le donne.
Non ci sono linee guida chiare o particolari dettagli rispetto a quali tipi di abbigliamento siano da considerarsi inappropriati, lasciando molto spazio all’interpretazione personale e scatenando accuse di detenzione arbitraria delle donne da parte degli agenti. Le persone arrestate dalla polizia morale infatti ricevono un avviso più o meno all’improvviso e, in alcuni casi, vengono portate nei centri di rieducazione dove devono seguire una lezione obbligatoria sull’hijab e sui valori islamici. Poi devono chiamare qualcuno che porti loro “abiti appropriati” per essere rilasciate. Oltre a reprimere le violazioni dell’hijab, il Governo promuove la sua versione del codice di abbigliamento islamico nelle scuole, nei media nazionali e negli eventi pubblici.

Devozione, protezione, modestia

Alcune persone occidentali considerano l’obbligo del velo per le donne mussulmane come il più grande simbolo di oppressione, ma sarebbe una falsità dire che non esiste un’usanza simile nella tradizione giudaico-cristiana. Secondo il rabbino Menachem M. Brayer, come scrive nel suo libro “La donna ebrea nella letteratura rabbinica”, era usanza delle donne ebree uscire in pubblico con un copricapo che, a volte, copriva tutto il viso lasciando libero soltanto un occhio e riporta citazioni come “Maledetto sia l’uomo che lascia vedere i capelli di sua moglie”. La legge rabbinica vieta la recitazione di benedizioni o preghiere in presenza di una donna sposata a capo scoperto poiché scoprire i capelli della donna è considerato “nudità”. Brayer dice anche che il velo della donna ebrea non è sempre stato considerato un segno di modestia: a volte il velo simboleggiava uno stato di distinzione e lusso piuttosto, personificando la dignità e la superiorità delle donne nobili.
Il velo indicava il rispetto di sé e lo stato sociale, infatti le donne delle classi inferiori indossavano spesso il velo per dare l’impressione di occupare una posizione superiore. Il fatto che il velo fosse segno di nobiltà era il motivo per cui le prostitute non potevano usarlo (nella vecchia società ebraica). Furono a quanto pare le “pressioni esterne della vita europea” a fare si che molte donne ebree iniziassero a uscire a capo scoperto o comunque senza velo, infatti alcune donne ebree hanno trovato più conveniente sostituire il tradizionale velo con una parrucca scura che, di fatto, è una forma di copertura dei capelli, spesso adottata rasando i propri.
Oggi, a parte quelle che vivono le comunità ortodosse, le donne ebree non si coprono i capelli se non in sinagoga.

E la tradizione cristiana? È risaputo che le monache cattoliche si coprono il capo da centinaia di anni, ma non è tutto. San Paolo nel Nuovo Testamento fa alcune affermazioni molto interessanti. “Il capo di ogni uomo è Cristo e il capo della donna è l’uomo. Ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto disonora il suo capo (…). L’uomo non deve coprirsi il capo, perché è l’immagine e la gloria di Dio, ma la donna è la gloria dell’uomo. Poiché l’uomo non è venuto dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo è stato creato per la donna, ma la donna per l’uomo. Perciò la donna deve avere sul capo un segno di autorità”.
La motivazione di San Paolo per velare le donne è che il velo rappresenta un segno dell’autorità dell’uomo, che è l’immagine e la gloria di Dio, sulla donna che è stata creata da e per l’uomo. San Tertulliano nel suo famoso trattato “Sul velo delle vergini” scrisse: “Giovani donne, portate i vostri veli per le strade, quindi dovreste indossarli in chiesa, li indossate quando siete tra estranei, poi indossateli tra i vostri fratelli”. Alcune denominazioni cristiane, come ad esempio gli Amish e i Mennoniti, pretendono ancora che le loro donne siano velate. La ragione di questo obbligo (morale) è che “il copricapo è un simbolo della sottomissione della donna all’uomo e a Dio. Diverso per i maschi. Sansone si lasciava crescere i capelli come giuramento a Dio: l’accordo era: “finché non li taglierai, sarai potente” e quando Dalila glieli taglia ha interrotto quel giuramento, lo ha reso debole e vulnerabile. Nel caso di Sansone, i lunghi capelli dell’eroe connotano un’idea culturale di virilità a quel Dio piacevano.
Naturalmente, il dio non è per tutti lo stesso, anzi lo stesso dio cambia opinione a seconda delle epoche e la spiritualità in generale è uno spettro molto, ma molto ampio. Le divinità greche sono spesso raffigurate con capelli lunghi e fluenti in segno di potere; nella fede rastafariana, i lunghi dreadlocks hanno lo scopo di rispecchiare la criniera del loro capo, il leone, come prova di devozione. E, testimonianze dell’uso dell’acconciatura con i dreadlock, sono state trovate in Grecia, Egitto e India, con i primi esempi risalenti al 1.500 a.C. Per indù e buddisti, i capelli lunghi possono rappresentare la bellezza e la potenza sessuale (anche a volte pericolosa) e tagliarli o raderli significa rinunciare alla mondanità per concentrarsi invece sul concetto di eternità. Alcune donne cristiane evangeliche si coprono la testa in segno di umiltà e gli Amish credono che la Bibbia imponga alle donne di farsi crescere i capelli lunghi e agli uomini sposati di lasciar crescere la barba.

Percepiamo quindi uno schema: i capelli sono un mezzo di espressione culturale perché offrono alle persone un modo semplice per pubblicizzare la propria identità.
Da tutte le prove di cui sopra, comunque, è ovvio che l’Islam non ha inventato il velo ma lo ha solo approvato. “O Profeta, dì alle tue mogli, alle tue figlie e alle donne credenti che dovrebbero gettare le loro vesti sui loro corpi (quando sono all’esterno) affinché siano conosciute e non molestate” (Corano 33:59). Questo è il punto: la modestia serve a essere protette dalle molestie pertanto, l’unico scopo dell’hijab nell’Islam sarebbe la protezione.
L’hijab, a differenza del velo della tradizione cristiana, non è un segno dell’autorità dell’uomo sulla donna né è un segno della sottomissione della donna all’uomo e a differenza del velo nella tradizione ebraica, non è un segno di lusso e distinzione di alcune nobili donne sposate. Nell’Islam, l’hijab è un segno di modestia che salvaguarda l’integrità personale delle donne proteggendole dalle molestie (da parte degli uomini). Forse converrebbe istruire gli uomini invece che obbligare le donne a coprirsi. Ma tant’è.

I capelli delle persone nere

“Se qualcuno non capisce quanto i capelli siano politici, è perché ha il privilegio di non doversene preoccupare”, ha detto Janai Norman, corrispondente di ABC News e conduttrice di Good Morning America Pop News. I capelli generano discriminazione in settori che vanno dall’istruzione al lavoro, “Per molti uomini e molte donne il modo in cui portano i capelli è determinante nella ricerca del lavoro, per mantenere il lavoro che o per la considerazione degli insegnanti a scuola”, afferma ancora Norman.
Negli anni Novanta 1990 la scrittrice e attivista per i diritti civili Audre Lorde sollevò la domanda: “I tuoi capelli sono ancora politici?”
Le era stato quasi negato l’ingresso alle Isole Vergini da un ufficiale dell’immigrazione elegantemente vestito con “capelli acconciati in modo impeccabile” le aveva detto che non poteva entrare nelle isole con i suoi capelli “così”. Lorde all’epoca aveva i dreadlocks, un’acconciatura criminalizzata e stereotipata negativamente a causa della sua associazione con il rastafarianesimo. Sì, sono solo i capelli, una parte del nostro aspetto e della nostra identità che però è intrinsecamente connessa alla cultura.
Le pratiche discriminatorie derivano da un pregiudizio contro i capelli che è ovviamente radicato nel razzismo. I capelli sono un affare politico eccome, sopratutto per le persone nere, i cui capelli non trattati sono considerati non adatti a un contesto professionale (o non eleganti). Mentre alcune persone bianche semplicemente si oppongono a un tipo di acconciatura diverso dal proprio, altre credono che portare treccine, dreadlocls o capelli naturali equivalga a fare dichiarazioni politiche e per questo si oppongono ancora di più. Dall’ex First Lady americana Michelle Obama fino alle protagoniste dei media e della politica, le donne nere devono aderire a standard estetici rigorosi e affrontare forme di discriminazione basate sui capelli.
Anche alcune aziende private applicano standard razzisti con il pretesto dell’aspetto “professionale” ma la discriminazione che parte dai capelli è tristemente arrivata anche nelle scuole, dove i capelli delle persone nere, se portati al naturale, con le treccine o i dreadlock sono considerati “distraenti”.
Non restano che la lisciatura chimica obbligatoria e la testa rasata. Ma è evidente che occorre fare una riflessione.

Corea del Nord

Mentre le donne possono solo scegliere tra 18 acconciature, i cittadini maschi devono avere tutti lo stesso taglio del leader Kim Jong-Un : devono mantenere i capelli più corti di cinque centimetri e devono tagliarli ogni 15 giorni. È la legge in vigore in Corea del Nord Va quindi un po’ peggio di prima, quando comunque gli uomini potevano scegliere soltanto tra 10 tagli di capelli. Questo è il modo con cui il regime reprime i vezzi “occidentali”.

I maschi con i capelli lunghi

Nell’antica Grecia i lunghi capelli maschili erano un simbolo di ricchezza e potere mentre una testa rasata era appropriata per uno schiavo . Gli antichi Greci avevano diversi dei ed eroi che portavano i capelli lunghi, tra cui Zeus, Achille, Apollo o Poseidone e si dice che i soldati greci portassero i capelli lunghi in battaglia come segno di potenza e aristocrazia. Plinio il Vecchio riferisce che i Romani non iniziarono a tagliarsi i capelli fino a quando i barbieri non giunsero in Italia dalla Sicilia nel 299 aC, e, quando Giulio Cesare li conquistò, ordinò che ai Galli fossero tagliati i capelli corti. Contemporaneamente in Grecia intanto, i capelli lunghi diventavano tipici dei filosofi che si pensava fossero troppo presi dalla conoscenza e dallo studio per preoccuparsi di tagliarseli. Nel Medioevo (in Europa) portare i capelli più corti spesso significava essere parte della servitù e delle classi contadine mentre i capelli lunghi erano spesso attribuiti a uomini liberi, come nel caso dei Goti e dei Merovingi. Quando gli Anglo-Normanni e gli Inglesi colonizzarono l’Irlanda, la lunghezza dei capelli arrivò a significare la fedeltà al retaggio irlandese: si riteneva che gli Irlandesi che si tagliavano i capelli stessero abbandonando la loro eredità culturale. Allo stesso modo, si riteneva che i coloni inglesi che portavano i capelli lunghi stessero abbandonando il ruolo di sudditi inglesi e cedessero allo stile di vita irlandese.
La moda dei capelli lunghi era molto diffusa tra gli uomini inglesi e francesi attorno all’anno Mille sebbene le indicazioni della Chiesa sul tenerli corti iniziassero a diventare pressanti.
Fino all’Ottocento le lunghezze dei capelli maschili in Occidente variavano a seconda di nazionalità, professione, età, stato sociale e mode passeggere poi, ecco che con la Prima guerra mondiale furono introdotti i capelli definitivamente corti: dal 1914 al 1918 gli uomini in trincea erano esposti a pulci e pidocchi tanto da spingere i vertici militari a stabilire una nuova tradizione militare. I poeti beat negli anni Cinquanta però tornarono a indossare acconciature più lunghe. Gli anni Sessanta sono passati dalle teste dei quattro Beatles che diedero inizio a una tendenza più diffusa, a una rivoluzione sociale che ha portato alla libertà di portare i capelli più lunghi senza che significasse che chi li portava fosse un reietto.
I capelli lunghi sono stati anche per gli uomini una conquista politica e un simbolo di protesta contro “la mascolinità” e la cultura militare. Infatti a partire dagli anni Settanta le acconciature più lunghe e sciolte sono consuetudine  anche per loro.

Breve storia di una giornata dedicata

La ricorrenza della GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA punta i riflettori sulle questioni femminili: lotte, riconoscimenti, successi, ingiustizie, soprusi, discriminazioni. Sin dai primi anni, il crescente movimento internazionale delle donne, rafforzato da quattro conferenze mondiali delle Nazioni Unite, ha costituito il cardine per il sostegno dei diritti delle donne e la loro partecipazione nel contesto politico-economico. 

Per comprendere nel dettaglio la storia di questa giornata, dobbiamo ripercorrere la linea del tempo, ponendo particolare attenzione ad alcune date: 

  • Nel 1909, si tenne la prima Giornata Nazionale della Donna negli Stati Uniti, in onore dello sciopero delle operaie, che protestarono contro le condizioni di lavoro.
  • Nel 1910, l’Internazionale Socialista, riunitosi a Copenaghen, stabilì una Giornata della Donna a carattere internazionale, che mirava al raggiungimento del suffragio universale. 
  • Nel 1911, la Giornata, celebrata il 19 marzo, costituì il mezzo per richiedere anche i diritti delle donne al lavoro e alla formazione professionale, oltre quello di voto.
  • Nel 1913, la Giornata divenne un meccanismo di protesta contro la Prima Guerra Mondiale.
  • Nel 1915, si tenne un raduno di oltre 1300 donne a L’Aia, provenienti da oltre 12 Paesi.
  • Nel 1917, il 23 febbraio, le donne, in Russia, protestarono e scioperarono di nuovo per “Pane e Pace”. Quattro giorni dopo, lo zar si dimise e concesse alle donne il diritto al voto.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la celebrazione dell’8 marzo inizia a diffondersi in molti Paesi. Ma perché l’8 marzo? Prima della rivoluzione, la Russia, a differenza di altri Paesi, non aveva ancora adottato il calendario gregoriano. Il giorno della rivoluzione “Pane e Pace”, del 23 febbraio del 1917 del calendario giuliano, corrispondeva quindi all’8 marzo di quello gregoriano. 

La Giornata è stata ufficialmente riconosciuta dalle Nazioni Unite nel 1977, quando è emersa per la prima volta dalle attività dei movimenti sindacali all’inizio del XX secolo, nel Nord America e in Europa. Quell’anno, le Nazioni Unite adottarono la risoluzione 32/142, che proclama una Giornata per i diritti delle donne e la pace internazionale da osservare tutti i giorni dell’anno

Le Nazioni Unite hanno sviluppato strategie internazionali, obiettivi e progetti per migliorare lo stato delle donne nel mondo creando un’eredità preziosa. Esempi di tali traguardi sono la Dichiarazione di Pechino, la piattaforma d’azione e la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW). Inoltre nel 2010, L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha fondato UN Women, ovvero l’organismo delle Nazioni Unite che ha come obiettivo l’uguaglianza di genere e l’empowerment delle donne. La nascita di UN Women rappresenta un passo storico verso il raggiungimento degli obiettivi dell’ONU per la parità di genere e l’affermazione delle donne nella società.

Questa ricorrenza costituisce un momento per riflettere sulle conquiste ottenute, chiedere nuovi cambiamenti e celebrare atti di coraggio e determinazione delle donne che si sono distinte nella storia. Il mondo ha fatto notevoli progressi in diversi ambiti, ma nessun Paese ha raggiunto ancora la parità di genere. Molto ancora resta da fare per soddisfare l’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n°5 dell’Agenda 2030. 

MARISA CINCIARI RODANO alla quale dobbiamo la luminosa scelta della MIMOSA, come fiore simbolo delle donne ricorda così quell’8 Marzo 1946 “Era il primo 8 marzo che si celebrava nell’Italia ormai libera e la scelta della mimosa come fiore della Giornata Internazionale della donna venne da sé”. Tutto è avvenuto a Palazzo Giustiniani in una riunione del Comitato direttivo dell’Udi dove si discuteva della necessità di scegliere un fiore-simbolo: “Rammento che passammo in rassegna diverse possibilità: scartato il garofano, già legato al Primo maggio, esclusi gli anemoni perché troppo costosi, la mimosa sembrava convincente, perché, almeno nei dintorni di Roma, fioriva abbondante e poteva esser raccolta senza costi sulle piante che crescevano selvatiche. Fu così — è questo il fotogramma che rivedo — che disegnai un approssimativo rametto di mimosa con l’apposito punteruolo che incideva la cera, sul cliché, con il quale sarebbe stata ciclostilata la circolare per i comitati provinciali”.

a cura della prof.ssa Francesca Zerman Dipartimento di Lettere